L’individuazione del datore di lavoro “effettivo”

L’individuazione del datore di lavoro “effettivo”

tratta da puntosicuro.it, a cura di Rolando Dubini, avvocato in Milano.

I criteri di individuazione del datore di lavoro nelle aziende: il principio di effettività, la responsabilità solidale degli amministratori, le deleghe e la possibilità di individuare più datori di lavoro. Di Rolando Dubini.

Ospitiamo il seguito del contributo di Rolando Dubini in merito alla individuazione della figura del datore di lavoro in riferimento ai compiti di prevenzione e tutela della sicurezza e salute nei luoghi di lavoro in cui sono affrontati alcuni casi specifici di individuazione in relazione alle definizioni normative e alla giurisprudenza. La prima parte “ Come individuare il datore di lavoro?” è stata pubblicata il 16 marzo 2012.

2. IL DATORE DI LAVORO E L’ELABORAZIONE GIURISPRUDENZIALE

2.1. Il datore di lavoro delegato per la sicurezza, a differenza di quel che si legge in numerose deleghe aziendali, non esiste, è una costruzione concettuale priva del benché minimo fondamento legislativo e giurisprudenziale, oltre che autocontraddittoria, posto che l’articolo 16 del D. Lgs. n. 81/2008 quando parla di delega prevede che il delegante sia sempre il datore di lavoro e il delegato sia più semplicemente il delegato del datore di lavoro (e non l’inesistente datore di lavoro delegato) [art. 16 D.Lgs. n. 81/2008 “1. La delega di funzioni da parte del datore di lavoro”].
Dunque esiste il massimo vertice aziendale, che ha il potere finale di decisione e spesa che è l’autentico datore di lavoro, al più vi sarà uno o più delegati del datore di lavoro ai sensi dell’art. 16 del D.Lgs. n. 81/2008.

Come ha scritto un fine cultore della materia, “l’individuazione di datore di lavoro va dunque operata ricercando quel soggetto, o quei soggetti, i quali siano funzionalmente in grado di far fronte alle incombenze accollate dalla legge a tale soggetto. Il problema si pone in modo evidente nelle strutture aziendali complesse, in relazione alle quali è necessario individuare i livelli decisionali dell’ente deputati ed in grado di soddisfare la posizione di garanzia accollata al datore di lavoro. Si considera, innanzitutto, che non si tratta necessariamente di individuare un’unica persona fisica, essendo concepibile che il ruolo venga svolto contestualmente da una pluralità di soggetti: si pensi, a mo’ di esempio, al caso in cui l’ente sia amministrato da un consiglio (cfr. art 2380, comma 2, Codice Civile), con la conseguenza che la figura di datore di lavoro può cadere sull’intero consiglio di amministrazione” (Walter Saresella).

E difatti se la sicurezza non è “oggetto di specifica delega, gli obblighi imposti ai datori di lavoro dalla normativa antinfortunistica [devono] ritenersi gravanti su tutti i componenti del Consiglio di amministrazione” [Cassazione penale sez. IV, sentenza n. 6280 dell’11 dicembre 2007]: “nelle imprese gestite da società di capitali, gli obblighi inerenti alla prevenzione degli infortuni posti dalla legge a carico del datore di lavoro, gravano indistintamente su tutti i componenti del consiglio di amministrazione”.

In particolare “la decisione è in linea con la giurisprudenza di questa Corte (vedere tra le altre, Sez. IV, sentenza n. 988, 11 luglio 2002, Macola ed altro) secondo la quale nel caso di imprese gestite da società di capitali, gli obblighi concernenti l’igiene e la sicurezza del lavoro gravano su tutti i componenti del Consiglio di amministrazione. La sentenza sopra citata sottolinea, altresì, che la delega di gestione, in proposito conferita ad uno o più amministratori, se specifica e comprensiva di poteri di deliberazione e spesa, può solo ridurre la portata della posizione di garanzia attribuita agli ulteriori componenti del Consiglio, ma non escluderla interamente, poiché non possono comunque essere trasferiti i doveri di controllo sul generale andamento della gestione e di intervento, soprattutto nel caso di mancato esercizio della delega” [Cassazione penale sez. IV, 11 dicembre 2007, n. 6280].

Anche la già citata sentenza della Sezione IV, n. 38991 del 10 giugno 2010, Quaglierini ed altri (c.d. sentenza Montefibre), affronta il medesimo tema in una vicenda relativa a società che gestiva uno stabilimento dedito alla produzione di fibre di Nailon ove si faceva uso di amianto per coibentare i tubi ed i macchinari. Nella specie, della morte di alcuni lavoratori, che nello stabilimento avevano inalato polveri di amianto contraendo malattie (asbestosi e mesotelioma pleurico) che li aveva portati al decesso, erano stati chiamati a rispondere tutti i membri del consiglio di amministrazione, anche in presenza di una delega ad uno o più amministratori delle attribuzioni in materia di sicurezza ed igiene sul lavoro: ciò sul rilievo che su tutti gravava il compito di vigilare sulla complessiva politica di sicurezza dell’azienda, il cui processo produttivo prevedeva l’utilizzo dell’amianto, con conseguente esposizione dei lavoratori al rischio di inalazione delle relative polveri.

La Suprema Corte ha affermato il principio che la posizione di garanzia degli altri componenti del consiglio di amministrazionenon viene meno con riferimento a ciò che attiene alle scelte aziendali di livello più alto in ordine alla organizzazione delle lavorazioni: da ciò derivando che, anche in ossequio al disposto dell’articolo 2392 del Codice civile, nonostante la delega, permane la responsabilità dei vertici aziendali e, quindi, di tutti i componenti del consiglio di amministrazione, quanto agli eventi lesivi determinati da difetti strutturali aziendali e del processo produttivo, aggiungendo, testualmente, che “in una fattispecie analoga a quella oggetto di giudizio, relativa ad impresa il cui processo produttivo prevedeva l’utilizzo dell’amianto e che aveva esposto costantemente i lavoratori al rischio di inalazione delle relative polveri, si è ritenuto che, pur a fronte dell’esistenza di amministratori muniti di delega per l’ordinaria amministrazione e dunque per l’adozione di misure di protezione concernenti i singoli lavoratori od aspetti particolari dell’attività produttiva, gravasse su tutti i componenti del consiglio di amministrazione il compito di vigilare sulla complessiva politica della sicurezza dell’azienda, il cui radicale mutamento -per l’onerosità e la portata degli interventi necessari – sarebbe stato indispensabile per assicurare l’igiene del lavoro e la prevenzione delle malattie professionali.

In sostanza, in presenza di strutture aziendali complesse, la delega di funzioni esclude la riferibilità di eventi lesivi ai deleganti se sono il frutto di occasionali disfunzioni; quando invece sono determinate da difetti strutturali aziendali e del processo produttivo, permane la responsabilità dei vertici aziendali e quindi di tutti i componenti del consiglio di amministrazione. Diversamente opinando, si violerebbe il principio del divieto di totale derogabilità della posizione di garanzia, il quale prevede che pur sempre a carico del delegante permangano obblighi di vigilanza ed intervento sostitutivo”.

La sentenza, Sezione IV, 7 aprile 2010, Gubertoni: sottolinea che, nelle imprese gestite da società di capitali, gli obblighi inerenti alla prevenzione degli infortuni posti dalla legge a carico del datore di lavoro, gravano comunque indistintamente su tutti i componenti del consiglio di amministrazione, se e in quanto difetti una delega specifica relativa alla sicurezza del lavoro.

La Suprema Corte, alla luce di tale principio e della considerazione che non risultava neanche documentata una delega specifica, ha rigettato il ricorso proposto dall’amministratore della società, al carico del quale era stato formalizzato l’addebito, fondato sulla doglianza che semmai doveva ritenersi responsabile il Presidente del Consiglio di amministrazione.
Ai sensi dell’art. 2381 del CODICE CIVILE “…, il CdA può delegare proprie attribuzioni… ad uno o più dei suoi componenti. Il CdA… valuta, sulla base della relazione degli organi delegati, il generale andamento della gestione. …Gli amministratori sono tenuti ad agire in modo informato; ciascun amministratore può chiedere agli organi delegati che in consiglio siano fornite informazioni relative alla gestione della società”: la delega di gestione o gestoria di cui all’art. 2381 c.c. non spoglia definitivamente il consiglio di amministrazione delle proprie attribuzioni, il quale infatti continua a costituire il perno della gestione sociale, nel senso che, così come gli è imputabile il risultato della gestione, deve pur sempre essergliene conservata la responsabilità [dovere di vigilanza sul generale andamento della gestione].

Detta valutazione è un monitoraggio da effettuarsi con cadenze periodiche (fissate dallo statuto, e in ogni caso almeno ogni 180 gg.) prefissate, coincidenti con gli obblighi di relazione/rendiconto degli organi delegati.

Il Codice civile art. 2381, comma terzo, seconda parte, espressamente prevede che il consiglio di amministrazione “può sempre impartire direttive agli organi delegati e avocare a sé operazioni rientranti nella delega”. Inoltre “ il consiglio di amministrazione “valuta sulla base della relazione degli organi delegati il generale andamento della gestione”.

Questa responsabilità solidale degli amministratori “può essere in parte attenuata soltanto nelle ipotesi in cui la complessità della gestione sociale renda necessaria la ripartizione di competenze ed attività mediante ricorso ad istituti specifici, quali le deleghe di funzioni al comitato esecutivo o ad uno o più amministratori, attraverso una procedura formalizzata secondo la previsione dell’art. 2381 c.c.”, ma si deve escludere “che, al di fuori delle ipotesi riconducibili al citato art. 2381, una divisione di fatto delle competenze tra gli amministratori, l’adozione, di fatto, del metodo disgiuntivo nell’amministrazione, o, semplicemente, l’affidamento all’attività di altri componenti il collegio di amministrazione, possano valere ad escludere la responsabilità di alcuni amministratori per le violazioni commesse dagli altri, posto che la condotta omissiva per affidamento a terzi, lungi dal comportare esclusione di responsabilità, può costituire invece ammissione dell’inadempimento dell’obbligo di diligenza e vigilanza” (Cassazione, sentenza n. 22911 del 11 novembre 2010).

In particolare deve escludersi che l’attribuzione ad alcuni amministratori dei poteri di amministrazione straordinaria faccia venir meno i poteri di vigilanza incombenti agli amministratori cui siano riconosciuti solo poteri di ordinaria amministrazione (Cass. 12696/ 2003). Il Cda mantiene una competenza concorrente rispetto agli organi delegati poiché la delega non comporta attribuzione di poteri nuovi o autonomi ma attribuisce i poteri del consiglio anche agli organi delegati (App. Milano 21.1.1994). La vigilanza è la predisposizione di un programma regolamentato per il corretto flusso di informazioni tra delegante e delegato (App. Milano 21.1.1994), secondo i principi gravanti sul mandatario.

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Introduzione ai principi della responsabilità amministrativa delle società: il D.Lgs. 231/2001

2.2. Il datore di lavoro originario è il consiglio di amministrazione o l’amministratore unico
La Cassazione penale, nella c.d. sentenza Galeazzi, ha precisato che “nel caso di una società di capitali originariamente il datore di lavoro (in senso civilistico) va individuato nel consiglio di amministrazione o nell’amministratore unico. Ove, con la nomina di uno o più amministratori delegati, si verifichi il trasferimento di funzioni in capo ad essi, non per questo va interamente escluso un perdurante obbligo di controllo della gestione degli amministratori delegati; ciò trova un importante argomento di conferma, sia pure sul piano civilistico (con conseguenze che, peraltro, non possono che riflettersi su quello penalistico comune essendo la matrice e la giustificazione degli obblighi di garanzia), nel testo dell’art. 2392 c. 2 cod. civ. che ribadisce, anche nel caso di attribuzioni proprie del comitato esecutivo o di uno o più amministratori, la solidale responsabilità degli amministratori (di tutti gli amministratori) «se non hanno vigilato sul generale andamento della gestione o se, essendo a conoscenza di atti pregiudizievoli, non hanno fatto quanto potevano per impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose. Obblighiattenuati ma ribaditi anche nel nuovo testo dell’art. 2392 cod. civ. introdotto dal D.Lgs. 17 gennaio 2003 n. 6 che ha riformato il diritto societario con entrata in vigore il 1 gennaio 2004. In base ad un criterio di ragionevolezza si preferisce escludere che questo obbligo riguardi anchegli aspetti minuti della gestione, senza porre però in dubbio l’esigibilità di un dovere di vigilanza sul generale andamento della gestione. Si riferisce a tale generale andamento non l’adozione di una singola misura di prevenzione per la tutela della salute di uno o più lavoratori o il mancato intervento in un singolo settore produttivo ma la complessiva gestione aziendale della sicurezza. Dunque con il trasferimento di funzioni (come anche nella delega di funzioni) il contenuto della posizione di garanzia gravante sull’obbligato originario si modifica e si riduce agli indicati obblighi di controllo e intervento sostitutivo: ove l’amministratore non adempia a tali obblighi residuali e, in conseguenza di questa omissione, si verifichi l’evento dannoso si dovrà ravvisare la colpa nell’inosservanza di tali obblighi. In conclusione, in un sistema che si fonda su un assetto che esclude la delegabilità di determinate funzioni in tema di sicurezza, e che comunque prevede un residuo obbligo di controllo da parte di coloro cui originariamente è attribuita la qualità di datore di lavoro, non è ipotizzabile che residui un’area di irresponsabilità in base ad accordi, formali o meno che siano, o addirittura dedurre dall’inerzia un trasferimento di funzioni con efficacia giuridica escludente la responsabilità pervenendo al risultato di esonerare taluno dalla responsabilità penale in base ad un atto di autonomia privata” [Cassazione sezione quarta penale – Sentenza n. 4981 del 6 febbraio 2004 (u.p. 5 dicembre 2003) – Pres. Fattori – Est. Brusco – P.M. (P. Diff.) lannelli – Ric. P.M. in e. – Res. Ligresti e altri].

Come a dire, che quando si tratta di mancata adozione di una singola misura di prevenzione per la tutela della salute di uno o più lavoratori o il mancato intervento in un singolo settore produttivo non è in questione l’obbligo di vigilanza sul generale andamento della gestione che è comunque a carico del consiglio di amministrazione, ma bensì i poteri di cui dispone, seguendo il filo del ragionamento giurisprudenziale, di cui è dotato l’amministratore delegato, che da soli giustificano la sua posizione di garanzia di datore di lavoro.

Ciò in piena coerenza con la giurisprudenza, anche di merito, che ha sempre riconosciuto la responsabilità dell’imprenditore, a prescindere dall’eventuale delega, quando l’infortunio è da attribuire non tanto all’attuazione di questa o di quella misura, ma più in generale ad una situazione di assoluta inadeguatezza degli impianti in relazione alle esigenze di tutela della integrità fisica dei lavoratori [Pretura di Mantova sent. 3 marzo 1994 in Foro it., 1995, II, 594].

Questo indirizzo giurisprudenziale consolidato ha visto un importante segno di continuità con la nota e importante sentenza “Montefibre” ( Cassazione, sentenza 38991 del 4.11.2010) che ha ribadito una volta di più che «anche in presenza di una delega di funzioni a uno o più amministratori (con specifiche attribuzioni in materia di igiene del lavoro), la posizione di garanzia degli altri componenti del consiglio di amministrazione non viene meno, pur in presenza di una struttura aziendale complessa e organizzata, con riferimento a ciò che attiene alle scelte aziendali di livello più alto in ordine alla organizzazione delle lavorazioni che attingono direttamente la sfera di responsabilità del datore di lavoro».
La sentenza riguarda una mancata protezione dei lavoratori dal rischio amianto protrattasi per alcuni decenni. La particolare gravità dei fatti ha indotto la Corte di Cassazione ad allargare la responsabilità anche in capo a coloro che non hanno controllato i soggetti direttamente obbligati dalla legge alla tutela della salute e sicurezza dei lavoratori.

L’imputazione ha ad oggetto l’omessa adozione, soprattutto durante i frequenti lavori di manutenzione degli impianti, di decoibentazione e nuova coibentazione, delle cautele necessarie per evitare che i lavoratori dello stabilimento, appartenente ad un importante società che opera a livello internazionale, fossero esposti in modo diretto e indiretto alla inalazione delle polveri di amianto, non essendo stati dotati di dispositivi personali di protezione, non essendo state attuate le norme di igiene, non essendo stati edotti i lavoratori del rischio specifico a cui erano esposti, non essendo stato disposto di effettuare in luoghi separati le lavorazioni insalubri, non essendo state adottate le misure per prevenire o ridurre la dispersione e diffusione nei luoghi di lavoro delle polveri e fibre di amianto.
Gli accertamenti nel giudizio di merito hanno consentito di verificare come le suddette violazioni delle disposizioni sull’igiene del lavoro fossero state gravi e come, inoltre, a partire dal momento in cui la società coinvolta nel relativo procedimento è venuta a conoscenza dei rischi correlati all’esposizione all’amianto, il colposo comportamento dell’azienda si fosse protratto per circa 30 anni.
Alla società era, infatti, ben noto il rischio dell’esposizione all’amianto sin dal 1973 ossia a partire da quando i manutentori dello stabilimento erano stati sottoposti a controlli medici proprio per sospetta asbestosi e, a seguito di tali controlli, erano stati trasferiti, senza però che ciò avesse comportato alcuna riduzione al rischio di esposizione all’amianto, dai reparti in cui si trovavano.
Nonostante tale conoscenza, l’istruttoria condotta in giudizio ha accertato che la società, salvo che per poche e limitate iniziative giudicate del tutto insufficienti, non ha provveduto ad adottare radicali modifiche volte ad eliminare o a ridurre in modo significativo il rischio amianto né con riguardo agli impianti né con riguardo alle attività di manutenzione tanto che è risultato che nello stabilimento fosse presente amianto ancora nel 2002.
Tali comportamenti colposi hanno comportato le morti, avvenute fra il 1999 e il 2004, di 11 dipendenti dello stabilimento che hanno lavorato fra la metà degli anni ’50 e l’ultima metà degli anni ’90 con mansioni che comportavano forti esposizioni all’amianto. Di tali persone, 8 sono morte per mesotelioma pleurico, 3 per asbestosi.

Dei reati di cui sopra sono stati chiamati a rispondere 14 dirigenti della società: 2 direttori di stabilimento; 3 amministratori delegati, 9 consiglieri di amministrazione. La Corte di Cassazione ha ritenuto corretto il giudizio di merito di condanna di tali imputati con riguardo all’esistenza: a) di gravi e reiterate omissioni colpose di norme antinfortunistiche; b) delle patologie contestate; c) di un nesso di causa fra tali patologie e l’omissione colposa delle norme antinfortunistiche; d) di una responsabilità da parte di tutti gli imputati nel non avere impedito, avendone il potere, l’insorgenza e/o l’aggravamento delle patologie contestate.

Va poi ricordato, con particolare riferimento alle società di persone come le s.n.c., che in presenza di imprese con pluralità di titolari, si è stabilito che “…l’obbligo grava indiscriminatamente su tutti i titolari dell’impresa, salvo che preventivamente le attività per la sicurezza del lavoro vengano delegate ad uno di essi..” (Cassazione IV. 6.4.79, ric. Bortolato; Sez. IV. 30.3.65. ric. Ornago).

Fondamentale risulta, nella prospettiva costituzionale della responsabilità penale individuale (art. 27 comma 1 della Costituzione), la concreta individuazione del datore di lavoro, ovvero del soggetto al quale può essere legittimamente imputata la responsabilità penale per i fatti compiuti nell’esercizio dell’attività alla quale sono addetti lavoratori come definiti dall’art. 2 comma 1 lett. a) del D.Lgs. n. 81/2008.

Il principio di effettività e il datore di lavoro
Va premesso, in ogni caso, che è l’esercizio effettivo dell’impresa che consente di individuare la figura del datore di lavoro.
In applicazione del principio di effettività, infatti, l’articolo 299 del decreto legislativo 9 aprile 2008 n. 81 (“esercizio di fatto dei poteri direttivi”), inserito tra le disposizioni penali, ha esplicitato un principio da decenni affermato dalla giurisprudenza, prevedendo che le posizioni di garanzia relative a datore di lavoro, dirigente e preposto “gravano” in modo peculiare “su colui il quale, pur sprovvisto di regolare investitura, eserciti in concreto i poteri giuridici riferiti a ciascuno dei soggetti ivi definiti”.

È interessante prendere in considerazione a tale proposito una pronuncia della Cassazione emanata a seguito di un infortunio mortale occorso ad un lavoratore in una cartiera a causa dell’organizzazione di un sistema di lavoro errato e di un ambiente di lavoro fortemente a rischio “sia per l’instabilità delle pesanti (ed ingombranti) balle di carta accumulate l’una sull’altra senza essere fissate al muro, in locali talvolta male illuminati ed inadeguati, sia per il sistema di accatastamento e prelevamento delle stesse, che non garantiva l’incolumità dei lavoratori”[Cass. Pen., Sez. IV, sent. n. 38428 del 22 novembre 2006].

La Corte d’Appello – in applicazione del principio di effettività previsto dal D.Lgs. n.81/2008 – aveva individuato il datore di lavoro nel “soggetto che concretamente impartiva disposizioni ai lavoratori ed organizzava l’attività aziendale, [il che] consentiva di indicarlo quale titolare della posizione di garanzia all’interno dell’azienda e dunque di responsabile dell’incolumità dei lavoratori.”
Nel qualificare l’imputato come soggetto titolare della posizione di garanzia all’interno della cartiera, la Cassazione ha confermato l’impostazione della Corte d’Appello, affermando che, al di là della qualificazione formale operata da quest’ultima (allorché aveva identificato l’imputato come amministratore unico dell’azienda, di cui era invece titolare ed amministratore la moglie), su quello incombeva l’obbligo di tutela della salute e sicurezza dei lavoratori in virtù delle “mansioni dirigenziali dallo stesso in concreto ricoperte ed esercitate all’interno della stessa azienda, secondo quanto emerso dalle acquisizioni probatorie in atti”.
In particolare, l’imputato era stato indicato dalle dichiarazioni dei testi come “il soggetto che dava le direttive ai dipendenti e che di fatto si comportava quale effettivo titolare dell’azienda”.

Tale approccio è coerente con l’orientamento ormai consolidato della Suprema Corte secondo il quale “in tema di infortuni sul lavoro, l’individuazione dei soggetti destinatari della relativa normativa [datore di lavoro, dirigente, preposto] deve essere operata sulla base dell’effettività e concretezza delle mansioni e dei ruoli svolti” [Cass. Pen., Sez. IV, sent. n. 6025 del 20 aprile 1989] e “deve fondarsi non già sulla qualifica rivestita bensì sulle funzioni in concreto esercitate, che prevalgono, quindi, rispetto alla carica attribuita al soggetto (ossia alla sua funzione formale)” [Cass. Pen., Sez. Un., sent. n. 9874 del 14 ottobre 1992], come a dire che la mansione concretamente esercitata prevale sulla qualifica formale e apparente.

La disposizione che individua come datore di lavoro non solo il titolare del rapporto di lavoro ma anche, in alternativa o anche in modo concorrente, il soggetto “titolare dei poteri decisionali e di spesa”, recepisce la lunghissima elaborazione giurisprudenziale in materia, sviluppatasi a partire dal D.P.R. n. 547/1955 (ora abrogato), e trova applicazione in tutte quelle realtà aziendali complesse nelle quali il titolare del rapporto di lavoro non è il soggetto che ha la responsabilità concreta della gestione effettiva dell’azienda, o unità produttiva (o unità di servizio per la pubblica amministrazione).
Può dunque ben essere che in una medesima azienda, sotto un’unica ragione sociale, vi siano, ai fini della prevenzione infortuni e malattie professionali, due datori di lavoro responsabili di fronte alla legge quali principali soggetti obbligati, principali debitori di sicurezza nei confronti dei lavoratori. Ciò sempre però che questi soggetti dispongano dell’adeguato potere direttivo, decisionale, gestionale e di spesa necessario per garantire lo svolgimento sicuro dell’attività lavorativa aziendale: queste condizioni devono risultare in modo netto e incontrovertibile da documenti aziendali aventi data certa, che attribuiscano esplicitamente i citati poteri e doveri.
Qualora questi poteri incontrino dei limiti, è chiaro che detto soggetto risponderà dell’adempimento dei propri doveri prevenzionistici esclusivamente nell’ambito così delimitato, oltre al quale risponderà il soggetto a lui gerarchicamente sovraordinato, nella linea gerarchica aziendale.

L’elevazione del criterio di effettività (art. 299 D.Lgs. n. 81/2008) a cardine dell’intero sistema di responsabilità prevenzionistiche conduce al pieno riconoscimento legislativo della legittimità di una delega di funzioni, che resta (sia ben chiaro) una facoltà, e non un obbligo, del delegante datore di lavoro, avente efficacia pienamente liberatoria, secondo la visione della teoria giuridica ‘funzionalistica’, e permette pure di risolvere l’annosa questione dell’imputazione delle responsabilità infortunistiche all’interno delle persone giuridiche.

In relazione alle società di capitali l’amministrazione della società può essere affidata ad un solo amministratore oppure ad un intero consiglio di amministrazione; quest’ultimo può a sua volta trasferire le proprie attribuzioni ad un comitato esecutivo o ad un suo membro, tramite l’istituto della delega di cui all’art. 2381 codice civile.
Qualora il consiglio di amministrazione abbia distinto le competenze e investito espressamente il consigliere delegato dei compiti di amministratore delegato o presidente del consiglio di amministrazione, ad esempio, si realizza una corretta individuazione del datore di lavoro di cui all’articolo 2 c. 1 lett. b) del Decreto Legislativo 9 aprile 2008 n. 81. Ma resta fermo il potere-dovere di controllo generale a carico del consiglio di amministrazione sul concreto espletamento delle funzioni assegnate.

L’identificazione del soggetto passivo dell’obbligazione di sicurezza quale datore di lavoro, ovvero soggetto obbligato in via principale, può dirsi compiuta tenendo presente la struttura effettiva dell’impresa e le mansioni esercitate (principio di effettività): e quindi va a gravare su quel soggetto che è tenuto a compiere tutti gli atti rientranti nell’oggetto sociale, compresi quelli volti ad assicurare che l’opera dei lavoratori sia espletata nel rispetto delle norme sulla prevenzione degli infortuni e di igiene del lavoro.

Deve però precisarsi che la posizione del comitato esecutivo o dell’amministratore delegato, nei casi in cui l’assemblea o l’atto costitutivo consentano la delega a questi delle attribuzioni spettanti al consiglio di amministrazione, non può essere definita a priori, a seguito della indeterminatezza della sfera di competenze dell’organo delegato, che può vedersi riconosciuti poteri di contenuto oscillante tra la mera esecuzione delle decisioni consiliari (nel qual caso la qualità di datore d lavoro di cui all’art. 2 comma 1 lett. b) del D.Lgs. n. 81/2008 resta in carico all’intero consiglio di amministrazione), da un lato, e al contrario la diretta titolarità di proprie prerogative gestionali, dall’altro.

Più in generale va detto che per individuare i garanti dell’obbligazione di sicurezza non si può che appuntare l’attenzione sul contenuto delle competenze concretamente conferite ai soggetti eventualmente delegati, ai quali la titolarità passiva dell’obbligazione di sicurezza può essere dunque imputata nella misura in cui ad essi spetti l’esercizio dei poteri di gestione necessari per conformare l’organizzazione dell’impresa agli imperativi legali.

La Suprema Corte “reputa che si debba privilegiare la “personalizzazione” della responsabilità, riconoscendo la legittimità della delega e l’autonomia dei poteri-doveri del delegato: all’applicazione della pena non può pervenirsi in base a situazioni puramente formali, essendo fondamentale principio costituzionale, quello secondo cui ognuno deve essere punito soltanto se abbia coscientemente partecipato alla commissione dell’illecito” [Cass. Pen., sent. n. 5242 del 27 maggio 1996, Zanoni e altri].

2.3 Il presidente di Cooperativa è il datore di lavoro
Con la sentenza n. 31385 del 6 agosto 2010 la Corte di Cassazione ha ribadito uno dei più recenti orientamenti della giurisprudenza relativi alla responsabilità della sicurezza nelle cooperative nei confronti della sicurezza della particolare figura del socio lavoratore. La corte ha infatti affermato che il presidente della cooperativa, in qualità di legale rappresentante della stessa assume, ai fini della normativa antinfortunistica, il ruolo di “datore di lavoro” e la correlativa posizione di garanzia nei confronti del socio lavoratore il quale, a tal fine, è equiparato ad un qualunque lavoratore subordinato.

Una interpretazione desumibile dall’art. 2, comma 1, lett. b) del D.Lgs. 81 secondo il quale per “datore di lavoro” si intende “il soggetto titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore o, comunque, il soggetto che, secondo il tipo e l’assetto dell’organizzazione nel cui ambito il lavoratore presta la propria attività, ha la responsabilità dell’organizzazione stessa o dell’unità produttiva in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa”.

Ma la sentenza si basa su questo e anche sul principio che il presidente della cooperativa è tenuto, in quanto datore di lavoro, ad assicurare una specifica formazione ai soci lavoratori nonché un’adeguata informazione, e dunque, a curare l’effettivo compimento del percorso formativo in funzione delle mansioni da essi concretamente esercitate. In giudici hanno altresì affermato che in caso di lavori eseguiti in regime di appalto il presidente della cooperativa è tenuto, come di ogni altro datore di lavoro, ad attivarsi per una proficua cooperazione con il committente, anche al fine di evitare che lavoratori privi di specifiche qualifiche, si rechino a svolgere la propria prestazione presso ambienti di lavoro non sicuri.

Infine la Suprema Corte ha ribadito il principio secondo il quale a nulla vale l’esistenza di una condotta inosservante da parte del socio lavoratore per esimere da responsabilità penale il datore di lavoro: infatti la condotta, anche imprudente, del lavoratore non solleva il garante da responsabilità se questa poteva essere prevedibile.

In particolare, la quarta sezione penale, per motivare la decisione ha spiegato che “secondo la giurisprudenza di questa Corte, il presidente dell’impresa cooperativa in quanto rappresentante legale della stessa, assume il ruolo di “datore di lavoro” e dunque la posizione di garanzia allo stesso attribuita dalla legge, mentre i soci della cooperativa sono equiparati a lavoratori subordinati (Cass. n. 32958/04)”. Inoltre, ha aggiunto la Corte che proprio “in ragione di tale qualità, egli avrebbe dovuto, da un lato, assicurare la specifica formazione dei soci lavoratori e l’informazione degli stessi, e dunque curare l’effettivo compimento del percorso formativo in funzione delle mansioni effettivamente esercitate, compito non adeguatamente assolto, secondo quanto accertato dai giudici del merito che hanno richiamato le dichiarazioni acquisite in atti; dall’altro, attivarsi per un proficua cooperazione con il committente, anche al fine di evitare che lavoratori privi di specifiche qualifiche, si recassero a lavorare in locali tecnici ove si trovavano in funzione macchinari privi di protezione”.

Rolando Dubini, avvocato in Milano

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Alessandro Pratelli

Perito aeronautico, calsse '72. Lavora come redattore tecnico dal 1995 poi fonda AP Publishing. Appassionato di Direttive e norme tecniche. La frase che preferisce? "Se non alzi mai gli occhi, ti sembrerà di essere nel punto più in alto".